sabato 1 febbraio 2014

LadyOscar, regia di Ferdinando Vaselli, con Alessia Berardi e Riccardo Floris, al Teatro Civico 14

CASERTA - Al Teatro Civico 14 di Caserta, il 16 febbraio 2014, ore 19, c'è LadyOscar; regia Ferdinando Vaselli, con Alessia Berardi e Riccardo Floris, drammaturgia Ferdinando Vaselli, musiche Sebastiano Forte. Per SCIAPO’ Rassegna di teatro a cappello ingresso libero / uscita a cappello. Un luogo fuori dalla città. Ai margini. Intorno erbacce e terra, terra ed erbacce. Sopra volano gli aerei. Atterrano e partono davanti a loro. Coso e Cosa stanno a guardare. Sono fidanzati i due. Sono tossici di coca. Sono evidentemente due loser, due perdenti. Tentano di muoversi, di scappare via ma sono bloccati. Stanno aspettando lo spacciatore. Stanno quasi aspettando di vivere. Ma non hanno nessuna voglia di decidere. O nessuna forza.
Ragazzi ingabbiati che conoscono solo il consumo, come i manifestanti di Londra che rompono vetrine per prendere le Nike, l’Iphone, che gridano la loro rabbia sorda, ottusa, disperata per un oggetto. Un prodotto del mercato globale. Come la cocaina, collante della loro relazione, ma anche metafora del tempo presente. Una droga fatta apposta per una società dove prevale il singolo che urla, che scalcia, che si fa largo a forza di gomitate, una società regolata solo dal profitto o perlomeno dall’illusione del possedere.Una droga per essere dentro e non per stare fuori. Prima la coca era la droga dei ricchi. Adesso è di tutti. La prende il muratore, la prende l’avvocato, la prende l’immigrato, la prende il politico, il giudice, il cassiere del supermercato, il dottore e l’infermiere, il ladro e il poliziotto, il professore e l’allievo . La coca non ha colore politico. La coca è democratica. Lo spettacolo parte da una visione iper-realistica attraverso un percorso che mette insieme un lavoro sulle improvvisazioni fisiche e una scrittura drammaturgica costruita sul lavoro dell’attore e che si sviluppa dalle interviste. All’interno di una scena quasi nuda i due attori si muovono come dentro ad un guscio che sembrano non voler rompere, dove si alternano sfoghi di rabbia e lampi comico surreali, con un linguaggio che partendo dal romano di periferia crea una lingua sporca, grezza, poetica ,intensa. Lunghi monologhi vomitati si alternano a giochi ritmici di parole che si trasformano quasi in suoni. Ma innanzitutto Ladyoscar è un gioco di coppia in un interno poco borghese. Sono in un limbo, in un luogo dove vedono passare gli aerei, sono presi dai loro rituali fatti di inutili litigi continui, di squarci di violenza improvvisa , di altrettante improvvise risate. Sono animati da un’energia, da un vitalismo che non trova sbocco se non attraverso una violenza più o meno latente. Sono rinchiusi nel loro guscio da cui ogni tanto tentano di uscire. Senza la volontà di riuscirvi. Non sembra accadere quasi nulla. Poi lei si sente male. Note di regia Un paio di anni fa un lavoro sulle interviste legate al quartiere fatte in collaborazione con il teatro Quarticciolo , mi aveva portato a raccontare la periferia romana nel presente. Una racconto difficile perchè pieno di infinite differenziazioni in cui l’identità del quartiere , della borgata si perde , in cui le identità si trasformano, si sovrappongono fino quasi a confondersi. Edifici enormi, villette a schiera, case dell’Ater, centri commerciali, campi rom, aziende, resti romani abitati e vissuti da anziani, studenti, professionisti, immigrati, pendolari, insegnanti. Un luogo quasi indistinto, ma che è e rimane ai margini. In uno di questi luoghi Coso e Cosa guardano passare gli aerei. Aerei low cost, come quelli della RyanAir, che loro potrebbero prendere ma non hanno la forza e forse la volontà di farlo. Guardano un altrove ma sembrano fare di tutto per non attraversarlo, neppure inseguirlo. Lo vagheggiano solamente. La storia è ambientata a Roma ma potrebbe essere ovunque, perchè la periferia della capitale è la metafora della provincia e l’Italia è un’immensa provincia di un impero dove il centro non si sa dove sia. Si sa solo che è altrove. Il lavoro parte dall’ascolto di storie di tossicodipendenza di adolescenti e giovani. Attraverso la collaborazione di ASL e Associazioni sono state raccolte testimonianze e realizzate interviste. Il lavoro parte da queste suggestioni. Ma non ha nessuna volontà di assumere una funzione didattico-educativa. La cocaina diventa una metafora per raccontare il presente, per raccontare una serie di generazioni che non riescono a crescere, che non riescono e forse non vogliono trovare una propria collocazione nella società. Al centro dello spettacolo c’è il lavoro dell’attore, con una riscrittura continua che parte dalle interviste ed arriva alle improvvisazioni. Il centro è il rapporto tra i personaggi. Nella prima parte la storia sembra presentarceli e farceli vedere come dentro ad un acquario, incapaci quasi di far sviluppare una storia, una trama. Un incontro-scontro che non trova sviluppo . Sono là, immersi nelle loro dinamiche, nei loro giochi , nei loro eccessi verbali spesso fini a se stessi. Una sorta di lingua che solo loro stessi sembrano comprendere fino in fondo. Il litigio finalizzato alla sopravvivenza, all’abitudinarietà , alla preservazione del rapporto ma che nasconde anche un’incapacità di uscire fuori e di guardarsi intorno. Guardano da lontano il viavai degli aerei. Sognano di poter volare via sapendo che sarà impossibile. Vagheggiano di andare all’estero, di scappare ma non lo faranno mai. Hanno paura, difendono solo il loro piccolo mondo fatto di pippate di cocaina, lavoretti saltuari, amici e famiglia. Bamboccioni direbbe qualcuno, vittime del familismo amorale direbbe qualcun altro. Consumatori comunque. La cocaina non è un surrogato della felicità, è un surrogato della normalità. Un modo per dare senso alla loro relazione. La cocaina è un modo per pensare di essere come gli altri, magari avere una vita comune, lavoro matrimonio, figli ma in realtà nei loro vagheggiamenti quello che sognano è di entrare al centro commerciale e di uscire cariche di cose. Poi lei inizia a stare male. E lì inizia la seconda parte. Un evento che non avviene all’inizio ma a metà e che rompe l’equilibrio della coppia. I due confessano delle bugie mentre gli eventi precipitano, ma non si riesce a capire cosa succede realmente. Lei dichiara prima di aver preso l’MDMA, una droga sintetica molto potente e di stare male a causa di questa, poi sollecitata da lui dice di essere incinta. I due sembrano non dire mai la verità lasciando lo spettatore interdetto , facendo credere al pubblico tutto ed il suo contrario. Ed è proprio qui che sta il senso del lavoro. I due incarnano un costume diffuso nella società dei consumi, nel turbocapitalismo acuito dalla crisi. L’obiettivo è legato al proprio progetto di vita personale che non riguarda gli altri e non contempla altre forme di vita, altri affetti. Non sembra almeno apparentemente esserci un altrove. E se non lo si trova, se non si è capaci a cercarlo, se non si è decisi tra una forma arcaica della famiglia e una modernità senza riferimenti se non quello del denaro si rimane inermi a guardare.

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