venerdì 14 marzo 2014

Relazione di Camilla Bernabei al VI Congresso della Cgil di Caserta

CASERTA - Relazione introduttiva VI Congresso Camera del del Lavoro di Caserta di Camilla Bernabei. Carissime compagne e cari compagni, La premessa che desidero fare e che ritengo doverosa, riguarda il nostro impegno, in un momento di grave difficoltà del Paese, affinché con questo Congresso sia ancora una volta ribadito il nostro ruolo di rappresentanza collettiva e che continuiamo e continueremo a resistere contro chi vorrebbe azzerare o, quanto meno ridurre, le conquiste dei diritti sul lavoro ed universali che abbiamo raggiunto in tanti anni di lotte.


Il nostro Congresso perciò dovrà parlare al Paese e rivolgersi ai nostri iscritti col primario obiettivo di rilanciare la democrazia e la partecipazione. Appunto per questo nella nostra provincia, così come in tutta l’Italia, i compagni delle varie categorie  hanno tenuto assemblee in tutti i posti di lavoro per  spiegare i contenuti delle nostre scelte ( le abbiamo definite “azioni “) sulle politiche sociali e di sviluppo, sul lavoro, sui diritti, sulla contrattazione, sul welfare, sulla importanza della coesione sociale, sul ruolo dell’Europa e qui, nel nostro territorio, non trascurando gli aspetti ed i gravi problemi  che ancora affliggono il Mezzogiorno e la nostra provincia.

Per questo motivo abbiamo deciso come Segreteria provinciale di avviare la discussione congressuale di questa Camera del Lavoro con una tavola rotonda sul tema dei giovani e l’occupazione nel Mezzogiorno.

            Come dicevo e come tutti ben sappiamo il nostro Paese sta attraversando una delle crisi più lunghe e più devastanti degli ultimi anni.

             Sorvolo sui danni e prodotti dal Governo Berlusconi. Con il Governo Monti abbiamo pagato costi sociali elevati: si parlava di rigore ed equità, ma di equità se ne è vista ben poca. Di rigore tanto: abbiamo subito feroci tagli al sistema pensionistico ed un attacco altrettanto feroce all’art.18 dello Statuto dei lavoratori, da offrire quale simbolo del cedimento (presunto) del Sindacato e dei lavoratori.

  L’intento, a loro dire, era quello rilanciare l’economia e la possibilità di creare nuovi posti di lavoro, tutti obiettivi rimasti sulla carta, per non dire che la situazione si è ulteriormente aggravata e senza contare lo scempio degli esodati.

 Un Paese in cui le disuguaglianze si accentuano sempre di più e il cui disvalore economico è stato ricordato da economisti quali Stiglitz e Krugman.

Recentemente anche uno studio Bankitalia ci ricorda come L’Italia sia al vertice delle classifiche mondiali per ineguale distribuzione della ricchezza; lo studio ci dice che l’Italia è un Paese ricco, con quasi 9mila miliardi di ricchezza, più di sei volte il PIL, ma questa ricchezza è mal distribuita: di essa il 47% si trova in poco più di 2 milioni di famiglie su 24 milioni, mentre la metà del popolo (12 milioni di famiglie) ha meno del 10% della ricchezza totale.

Non sono dati nuovi, sono dati già abbondantemente conosciuti, che oltretutto peggiorano di anno in anno, ma tenuti in scarso conto dai politici.

 Le disuguaglianze sostengono gli economisti progressisti non sono solo fattori di ingiustizia sociale, ma, nella società della conoscenza sono state individuate come ostacolo primario dello sviluppo. Noi intendiamo un’eguaglianza di certo non intesa come obiettivo finale di appiattimento dei redditi, ma come interesse economico di un paese. Con l’obiettivo di mettere tutti i suoi figli, tutti i suoi cittadini in condizioni di partenza non palesemente diseguali; si tratta solo di tener presente l’art. 3 della nostra Costituzione: “è compito della Repubblica  rimuovere gli ostacoli  di ordine sociale ed economico, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza  dei cittadini ,impediscono il pieno sviluppo della persona ….” Attenuare e tendere ad eliminare le disuguagliane quindi assume un nuovo valore: quello dello sviluppo.

L‘estrema disparità tra ricchi e poveri rappresenta non solo un’ingiustizia dal punto di vista morale, ma una minaccia per la democrazia e la stabilità sociale.

 E’ dimostrato che tutti quei Paesi che hanno aumentato le disuguaglianze di redditi e ricchezze (purtroppo l’Italia e fra questi) hanno avvertito ed avvertono maggiormente i morsi della crisi; mentre i Paesi a bassa disuguaglianza (indice Gini inferiore a 0,3) ( N.B. l’indice o coefficiente di Gini  misura il tasso di disuguaglianza  0 = al minimo della disuguaglianza ; 1 =  al massimo)  sono quelli che subiscono meno  le conseguenze della crisi. (vedi Germania, Austria e Paesi Nordici).

Al contrario delle teorie della Thatcher  e di Reagan solo se la grandi masse sono messe in grado di partecipare al banchetto della produzione e del sapere tutto il Paese ne beneficerà.    

La disuguaglianza impedisce che si attui il fenomeno sociale dell’ascensore sociale: in Italia la stragrande maggioranza dei giovani provenienti da ceti socialmente disagiati e deprivati raggiungono (salvo poche eccezioni) risultati poco brillanti negli studi e non riescono a raggiungere posizioni di rilievo nella scala sociale.  Nel nostro Paese il figlio del medico fa il medico, il figlio del notaio fa il notaio e così per avvocati, architetti ingegneri, di nuovo mettendo da parte quel bellissimo art. 3 della nostra Costituzione. Se a ciò si aggiunge la corruzione (ne abbiamo il non invidiabile primato in Europa) e l’evasione fiscale (anche qui occupiamo i primissimi posti) ci si rende conto di come questo nostro Paese sia messo male. Non si tratta di disfattismo, ma di descrivere la realtà come è nostro costume ed abitudine. 

Mi piace fare un’ultima riflessione: le nostre carceri (altra vergogna) sono affollatissime, ma guarda caso, si contano sulle dita di una mano evasori e corruttori detenuti. Attraverso cavilli legali (essi possono permettersi bravi avvocati), con leggi ad personam, aumento dei termini di prescrizione ed altri “escamotages” pochissimi pagano per le malefatte e chi ha subito il danno, oltre a non essere risarcito, qualche volta subisce anche la beffa di dover restituire ciò che il giudice gli aveva assegnato nel primo giudizio!! Altro che processo kafchiano !!! 

            Queste sono tutte conseguenze di una società in cui le disuguaglianze sono tanto evidenti.  Ma c’è ancora un’ultima cosa sulla quale vorrei soffermarmi: il merito. Chi di noi non è d’accordo sul fatto che il merito vada sempre riconosciuto, penso nessuno.

  Ma anche qui c’è da fare una piccola riflessione: quel famoso figlio del dottore di cui parlava Don Milani è sicuramente meritevole, però,…… però ad  uno dei nostri figli, al figlio di un cassintegrato, o anche di un impiegato o di un operaio vengono offerte le stesse chances, le stesse opportunità così come  vengono offerte, ad esempio, alla figlia della Ministra Fornero la quale, in giovanissima età, occupa, con pieno merito, un posto di prestigio nell’Università? E così come lei tanti altri fortunati (oltre che bravi) figli di manager, imprenditori, alti funzionari dello Stato ecc. E’ bene poi ricordare che c’è una legge Profumo che impedisce di avere un lavoro retribuito per chi fa ricerca all’Università, ( è successo alla Università di Bologna !) così la Ricerca se la possono permettere solo coloro i quali hanno una famiglia che li può sostenere. Anche le indagini OCSE PISA danno, a mio avviso, risultati falsati perché non possono essere confrontati con lo stesso metro gli allievi di una scuola ad esempio   di via della Spiga di Milano con gli allievi del Parco verde di Caivano, tanto per fare un solo esempio!

Viviamo cioè in un Paese in cui le contraddizioni, le ingiustizie sociali, i disagi, la mancanza di lavoro per le donne, per i giovani, per le persone espulse dal lavoro pubblico e privato, per tutti coloro che ancora non hanno avuto alcuna possibilità di affacciarsi al mondo del lavoro, non si intravedono soluzioni positive, se non di qualche promessa per il futuro!  

 E’ vero queste contraddizioni non si risolvono con la bacchetta magica, ma se non vi è un inversione di tendenza, come da sempre la CGIL chiede, le cose non possono cambiare.

Lo slogan del nostro Congresso è: “Il lavoro decide il futuro “. Ma quale futuro!

 I dati ufficiali di disoccupazione sono da molti anni preoccupanti, e le ultime rilevazioni sono davvero “allucinanti” come ha “twittato” il nuovo Presidente del Consiglo !!   Per quanto mi riguarda aggiungerei anche un altro aggettivo: scan-da-lo-si ! Sì, scandalosi per un Paese civile che fa parte dell’Occidente ed è (fino a quando!) fra i Paesi più industrializzati.

 Il dato complessivo della disoccupazione è del 13% mai così alto dal 1977 !  Per i giovani il tasso di disoccupazione totale è del  43,5% ; nel Mezzogiorno  raggiunge il 55,3%  di cui il 59,8 % donne , sì avete sentito bene sono questi i dati.

 Solo nell’ultimo anno, nel 2013, si sono persi 479mila posti di lavoro.  E manco a dirlo, tanto per non cambiare, la crisi si è abbattuta con inaudita violenza sulle fasce della popolazione che hanno sempre sofferto di più: giovani, donne e Mezzogiorno.

Di fronte a questi dati, ricordare il primo articolo della nostra Costituzione diventa quasi blasfemo.

L’economista Federico Caffè già anni fa riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana, ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese.  Egli aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato del lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell'operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro.

Purtroppo anche il ceto medio del nostro Paese arretra, cambiandone la composizione sociale.  C’è un numero crescente d’italiani che si sente impoverito e sente sempre di più il peso dell’insicurezza economica. E’ l’Italia della “grande incertezza” come dice Ilvo Diamanti: “la società italiana  è caratterizzata dalla perdita di riferimenti di valore, istituzionali, normativi…ed è ormai “disorientata”.   Ciò comporta per noi, sindacato generale, un impegno maggiore perché siamo ancora la maggiore forza pienamente radicata nella società.

Ma quali sono stati i provvedimenti strutturali (parola che tutti usano, ma nei fatti non applicata) che lo Stato ha messo in campo o almeno favorito?  Non basta solo denunciare e fare annunci o promesse. Per trasformare questa realtà c’è bisogno di progetti di politica economica e sociale.

 Ed è bene ricordare che una proposta politico – culturale democratica e progressista, come la CGIL chiede, non può dirsi tale se non tutela lo stato sociale ed i più deboli.

La politica fin ora imposta dalla BCE ha portato questi danni, non può più essere seguita e continuare ad essere applicata. Una politica di cieca austerità e di svalutazione del lavoro deprimono l’economia reale. In Italia sin dagli anni ’90 si è attuata una fuga dal lavoro stabile unita ad una politica del contenimento salariale con l’obiettivo di  sostituire  la svalutazione competitiva con la compressione del costo del lavoro.

 Di fronte ad una tragedia sociale di tale dimensione, per salvare l’euro, la civiltà del lavoro, ossia la democrazia delle classi medie, c’è bisogno di ben altro. Una politica industriale che comprenda non solo gli interventi per l’industria, ma più in generale tutte quelle misure che possano riguardare   le attività produttive in generale. Anche con quei risvolti ed interazioni, che a prima vista, possano sembrare distanti dalla questione industriale.

Serve un governo pubblico dello sviluppo. Certamente il ruolo dell’industria e del manifatturiero resta un architrave del sistema economico; si fa bene, perciò, a sostenere con buone politiche l'industria manifatturiera; ma è completamente fuori da ogni realistico scenario sperare nuova occupazione dall'industria. Perché questo da anni non accade in nessun paese industriale al mondo.   E’ necessario anche al nostro interno, come CGIL, che ci sia un serio dibattito culturale sulla modernizzazione del terziario. Altrettanto certo è che di fronte al picco senza precedenti raggiunto dalla disoccupazione e dalla mancanza di lavoro, non appare adeguata la solita   ripetizione di misure tradizionali – quali la revisione delle regole e gli incentivi fiscali all’assunzione di giovani – che già in passato si sono dimostrate insufficienti.  Flessibilizzazione del mercato del lavoro, concorrenza ed altro sono stati i pilastri distruttivi dell’austerità tedesca. Gli USA hanno invertito il trend dell’occupazione grazie agli investimenti pubblici. Vorrei ricordare, a tal proposito, che la CGIL lanciò una proposta con    il “Piano del Lavoro” secondo il quale con 5 miliardi di Euro l’operatore pubblico- in tutta le sue articolazioni centrali e territoriali potrebbe creare in un anno 400.000 posti lavoro e con 15 miliardi addirittura 1 milione. Naturalmente a certe condizioni.

L’economia riparte con gli investimenti. E quelli ci sono se le tasse sono basse, le amministrazioni funzionano con una burocrazia più snella, le infrastrutture sono efficienti ed appaiono competitive. Allora sì che arrivano gli investimenti e riprende anche l’occupazione. Il dibattito sui modelli contrattuali e l’eventuale abolizione di quello nazionale, sono solo scorciatoie per nascondere l’incapacità della politica a superare le difficoltà del Paese e non si curano certo con l’invenzione di nuove tipologie contrattuali e tanto meno con la lotta contro i “loro” simboli (art.18 ). 

Insomma abbiamo fatto “i compiti “che ci erano stati assegnati ma le politiche di austerità hanno tradito tutte le promesse, anche per quel che riguarda il risanamento, visto che il debito pubblico ha continuato la sua corsa. La verità è che la politica dei tagli ha contribuito a congelare la domanda di beni di consumi e di beni di investimento delle imprese. E se la domanda si ferma non ha senso produrre e quindi conseguentemente non si crea occupazione.  La flessibilità e la moltiplicazione delle forme contrattuali non sono serviti ad accrescere la competitività delle imprese e non hanno generato effetti positivi su PIL e occupazione. La chiave sta, invece, in un salto tecnologico nel campo industriale. Dopo anni di mancati investimenti, negli ultimi trimestri del 2013, la spesa di investimenti e mezzi di trasporto ha segnato ancora l’ennesima contrazione. 

 Emergenza tra le emergenze rimane, in Italia, quella giovanile, vera fonte del disagio sociale e di rivolte che poi assumono i colori dell’antipolitica. Le tensioni forti che da quasi due decenni si aprono tra le aspettative di generazioni scolarizzate e la chiusura delle prospettive occupazionali in un mercato del lavoro sempre più asfittico si fanno ogni giorno più evidenti.

 I NEET, (acronimo inglese di Not (engaged) in Education, Employment or Training), sono in Italia circa 4 milioni; questo acronimo è un nome che la dice lunga sulla biografia dei giovani, visto che non definisce un’identità positiva ma ciò che non si fa (non lavorano, non studiano) e ciò che non si è (né giovani, né adulti).  Giovani e giovanissimi che non studiano e non lavorano e di cui fanno parte 400 mila laureati ed un milione e 800 mila diplomati. Giovani a cui il famoso “pezzo di carta” non ha aperto loro il mercato del lavoro. Infatti tra il 2004 ed il 2013 gli occupati con diploma o laurea sono diminuiti del 20% ; e spesso si sentono dire “lei è troppo qualificato per questo lavoro” !  Nel 2004 i giovani che avevano un lavoro erano 7,7 milioni oggi 5,3 milioni: il numero dei giovani che non studiano e non lavorano continua ancora a crescere insieme a quelli che continuano a vivere in famiglia. Altro che “bamboccioni “ o “schizzinosi” ; essi sono piuttosto, “giovani senza” come qualche sociologo li ha definiti: senza un lavoro, senza speranza , senza autonomia, senza prospettive e, soprattutto , senza fiducia.

 Essi sono lo specchio di un Paese dove, come dicevo prima, gli ascensori sociali non funzionano e dove tutto il ceto medio ha rotto gli argini riversandosi verso la fascia povera.

 In Europa come quota “neet” siamo terzi preceduti solo da Grecia e Bulgaria.  Ora di fronte a tale sfacelo cosa è stato fatto? Nulla se non dispute su come   regolamentare il mercato del lavoro e qualche sussidio senza alcuna sistematicità.

 Fino ad oggi abbiamo assistito ad una politica che complessivamente rimane lontana non dico dal risolvere, ma almeno affrontare in modo serio la politica per l’occupazione, soprattutto di giovani e donne, una politica per un welfare moderno ed inclusiva. Ci troviamo invece ad essere costretti a subire una politica di rigore che in tanti anni ha portato alla situazione disastrosa attuale. Una società così strutturata è destinata ad esplodere: vanno cambiate le politiche dell’Europa che dovrebbe incoraggiare con azioni concrete tutti i Paesi più ricchi a non   puntare più sul rigore ( ha già fatto tanti danni) , tanto che ogni giorno di più aumenta la rabbia contro l’Europa stessa, ma scommettere  decisamente sulla crescita economica, sull’occupazione , sull’equità sociale.

Il nuovo Presidente del Consiglio si è impegnato ad attuare una serie di provvedimenti urgenti ed a suo dire “strutturali” (lavoro, istruzione, riforma elettorale, titolo V, riforma della burocrazia) che porterebbero ad una decisa inversione di tendenza. Il piano che dovrebbe essere presentato entro pochi giorni, dovrebbe, finalmente, affrontare il tema del lavoro.   Certamente è apprezzabile il fatto che il Governo metta al primo posto dei suoi impegni il lavoro.

Il “Jobs Act” prevede, in breve, un sussidio di disoccupazione universale a tutti coloro che perdono il posto, compresi, collaboratori a progetto, precari ed a tutti quei lavoratori senza alcuna protezione, attraverso uno spostamento di risorse previsto per la Cig in deroga. (ci sono perplessità da parte nostra). Inoltre interventi sull’edilizia, taglio al cuneo fiscale ed ai costi dell’energia. Riduzione del numero dei contratti oggi esistenti e passaggio al contratto unico a tempo indeterminato a tutele crescenti (anche su questo esistono nostre perplessità).  Quindi una revisione del codice del lavoro con assegno universale per chi perde il lavoro, ma con l’obbligo di seguire un corso di formazione e di non rifiutare non più di un’offerta dei lavoro.  La prima tappa, però, dovrebbe essere la cosiddetta “garanzia giovani” un programma europeo per consentire a tutti i giovani che escono dalla scuola o che perdono il lavoro di trovare un’opportunità entro i successivi quattro mesi. Con la speranza che i fondi europei non vengano ancora una volta poco impegnati. Per l’edilizia scolastica sarebbero previsti dieci miliardi per adeguare 2 mila istituti, in deroga al patto di stabilità; l’arco di tempo previsto si aggira intorno ai tre anni. Questi i provvedimenti urgenti, ma c’è l’impegno per affrontare più complessivamente tutta la problematica di scuola, formazione università, ricerca senza le quali, così come da noi sempre affermato, non può esserci né sviluppo, né democrazia.

Un inizio che, naturalmente genera molte attese con la speranza che non vengano deluse. C’è, però, preoccupazione per il reperimento delle risorse. Il Governo deve precisare in dettaglio obiettivi, procedure e coperture finanziarie delle singole misure elencate nel programma. Ci sono, ad esempio, perplessità da parte nostra, circa la destinazione delle risorse dal taglio dell’IRAP da cui i lavoratori non avrebbero benefici fiscali e alla riduzione del cuneo fiscale.  La CGIL chiede di destinare tutte le risorse previste per il taglio del cuneo fiscale al lavoro e non alle imprese, non limitandosi ad intervenire sull’Irpef ma aumentando anche le detrazioni. Gli annunci sono tanti, ma non si può immaginare di saltare la rappresentanza sociale. E’ necessario un serrato confronto con i sindacati prima di qualsiasi riforma: “è necessario discutere con nettezza  delle forme di finanziamento perché al momento ci sono elementi poco traducibili e comprensibili”  “è il lavoro soprattutto quello che manca“  ha ricordato la nostra segretaria generale.

Per quanto ci riguarda, la sfida per un nuovo modello di sviluppo e per la democrazia, è la CONOSCENZA. Se non riusciamo a mettere al primo posto, in un’epoca in cui il mondo diviene ogni giorno più complesso, la conoscenza, non ci può essere vero cambiamento e vero sviluppo, intesi come sostenibilità sociale, ambientale, culturale ed economica.

 In questi ultimi anni abbiamo assistito al declino di scuola, università, ricerca, formazione che ha accentuato il divario   nord-sud. Esse, invece, devono occupare un posto centrale per riportare l’Italia nella media dei paesi OCSE e per offrire un’opportunità di sviluppo e cambiamento. Nelle società complesse, come quella in cui viviamo, l’accesso al sapere diventa centrale e fondamentale per la convivenza civile e la vita democratica. Per queste ragioni chiediamo che al centro degli investimenti dell’agenda politica del Governo ci sia l’istruzione.

L’altra sfida è quella del Mezzogiorno: non solo dai dati sulla disoccupazione, ma anche da tutti gli altri indicatori economici e sociali il gap nord-sud appare sempre più evidente e, in tempo di crisi, aumenta. Non si può pensare ad una crescita ed ad uno sviluppo del nostro Paese senza prima aver colmato questo gap. E’ necessario che il nuovo Governo dia un’attenzione particolare alle condizioni economiche del Mezzogiorno; che il ministro dell’Economia non si annoveri nella schiera dei “bocconiani” e quindi non abbracci la dottrina dell’austerità.  Faccia in modo che le banche aprano linee di credito soprattutto a famiglie e d imprese meridionali e non ceda alle richieste di pretenderebbe di trattenere nei territori più ricchi del paese il 75% degli introiti fiscali, tagliando i trasferimenti al SUD, perché è del tutto falso che l’economia del mezzogiorno sarà agevolata dalla ripresa del Settentrione.

Nel Mezzogiorno è necessario un programma di opere pubbliche urgenti per il nostro territorio che si potrebbero cantierare velocemente. Conosco l’obiezione immediata a questa proposta: così si ingrassa il malaffare, la politica corrotta, la malavita organizzata. Ma è assurdo parlare del Mezzogiorno riducendolo a due concetti: come spendere i fondi europei e come contrastare la malavita organizzata. Manca ancora una visione condivisa del Mezzogiorno: i diritti dei cittadini, di chi paga la polizza di assicurazione auto il doppio di città del nord, di chi aspetta la borsa di studio che tarda a venire, e di chi chiede un prestito e, quando e se lo ottiene solo a tassi maggiorati. Dobbiamo offrire al Mezzogiorno le stesse opportunità degli altri giovani e degli altri imprenditori di altre realtà; non basta mettersi come fiore all’occhiello i fondi destinati alle Università del Mezzogiorno se poi i collegamenti con il resto d’Italia e l’Europa sono ancora come quelli di 30 anni fa. Certo è auspicabile, anzi indispensabile ed urgente mettere insicurezza le scuole, ma certo non basta se gli altri servizi che contribuiscono a creare educazione e formazione sono carenti o inesistenti.  Non possiamo più permettere che venga ignorata la nuova (anzi sempre vecchia) questione meridionale. La politica di coesione territoriale si è limitata alla gestione dei Fondi europei che le Regioni non riescono ad utilizzare e spendere a pieno; ora la coesione esce dal Governo, ma noi chiediamo maggiore impegno rispetto ai problemi veri del Mezzogiorno, salvo a continuare con sempre maggior impegno la lotta alla corruzione, al patto scellerato tra politica centralista e gruppi di poteri locali ed al cancro della malavita organizzata





Ed ancora non possiamo nasconderci le gravi difficoltà in cui si trova la nostra provincia. Prima di tutto i tassi di disoccupazione che, specie per i giovani e le donne, hanno raggiunto livelli non più sopportabili. Le industrie in difficoltà ( Firema, Indesit, Nuroll, Jabil) solo per fare alcuni esempi.

  Ma anche gli esercizi commerciali che dismettono le attività, la crisi dell’edilizia che da sempre ha rappresentato uno dei volani dell’economia, la crisi che investe la nostra produzione agricola a seguito della campagna, in parte esagerata, sull’inquinamento delle nostre campagne. Insomma una situazione davvero poco tranquillizzante per non dire grave.  Un welfare che si riduce e restringe soprattutto per i più bisognosi, basta guardare il notevole aumento dei pasti distribuiti dalle associazioni assistenziali! Mentre è innegabile che nel Mezzogiorno l’unico welfare che ancora funziona è la famiglia…..



Tutto questo ci preoccupa perché la coesione sociale si sfilaccia sempre più. Quando non ci sono certezze per il lavoro, per il futuro dei propri cari è estremamente difficoltoso arginare la rabbia, lo scontento ed anche qualche intemperanza.  In più, in una situazione economica e sociale così compromessa, trova terreno fertile la malavita organizzata con i suoi traffici illeciti che spesso coinvolgono i giovani; senza dimenticare la piaga del lavoro nero nel quale  prevalentemente sono coinvolti  gli immigrati, sfruttati  e ricattati,  al netto dal danno alle casse dello Stato e l’evasione fiscale e contributiva. Insomma, non devo ricordarlo in questa sede, la CGIL, la nostra storia ancora una volta   ci impone di fare ogni sforzo per contribuire alla ripresa della nostra provincia

L’aggravarsi della crisi sul nostro territorio è stata determinata anche da una politica poco attenta della Regione Campania che non ha saputo affrontare alcun problema con decisioni adeguate per oltre due anni. Solo nell’ultimo anno la riprogrammazione del piano di azione e coesione vede impegnata la regione Campania con investimenti nel settore manifatturiero, anche nella nostra provincia.



Non possiamo accontentarci di un piano che al momento è ancora sulla carta; già in altre occasioni la nostra provincia ha dovuto assistere alla progettazione di accordi di programma che non sono mai stati attuati. La platea di lavoratori in mobilità, in attesa di rientrare nel ciclo produttivo, legata all’attuazione del piano di azione e coesione   richiede ben altri provvedimenti.

Oggi la nostra provincia deve recuperare il notevole gap rispetto ad altri territori e non può permettersi di sprecare le occasioni che, promesse più volte dalle varie Istituzioni, vengano disattese. Un’occasione che, se ben sfruttata, potrebbe far sì che i “Terra di lavoro” riacquisti il suo autentico significato.  

 Un intreccio complesso di situazioni negative con profonde radici nel passato, hanno condizionato sicuramente l’avvio di ripresa che, anche se debole, s’intravede in altri territori del Paese.

La deindustrializzazione delle grandi aziende multinazionali iniziata già verso la fine anni ottanta, la storica carenza di infrastrutture adeguate, una malavita organizzata ed una burocrazia ed una pubblica amministrazione spesso lenta, se non collusa con la malavita locale, hanno creano un mix che ha scoraggiato, negli ultimi anni, qualsiasi imprenditore a programmare investimenti industriali nell’area casertana.

 Noi riteniamo, però, che ci siano ancora le condizioni di ripresa nonostante questo quadro non di certo rassicurante: è sicuramente possibile venir fuori da questo “impasse”. Abbiamo la necessità di definire una identità nuova per quella “Terra di lavoro” fino a qualche anno fa con un tessuto industriale ed economico competitivi. Una identità che possa ripartire dalle esperienze positive e che vede ancora presenti sul territorio professionalità ed eccellenze industriali, commerciali ed agro alimentari capaci di competere a livello nazionale ed internazionale.  

Le nostre maestranze sono ancora in grado di imporre prodotti di eccellenze nel mondo in più settori: basti pensare alla capacità di progettazione di centri di ricerca quale il Cira e Novamont o alle capacità industriali della Firema, alla tradizione delle sete di S.Leucio. Sono solo alcuni esempi di realtà industriali che hanno ancora notevoli potenzialità   e che per motivazioni di varia natura ed origine, oggi, non hanno tutte le occasioni per poterle attuare appieno.

Tutto i settori delle telecomunicazioni, dell’aereo spazio, dell’agroalimentare della “green economy “possono avere un futuro nella nostra provincia sia per l’esperienza passata, sia perché possono trarre risorse dalla posizione strategica del territorio.  

 In una terra martoriata da sversamenti illegali di rifiuti industriali, soprattutto del Nord, è necessario iniziare a pensare seriamente alla green economy intesa anche come recupero di siti inquinati, Ci siano tutte le condizioni perché questa terra possa ricominciare a vedere un futuro di un nuovo sviluppo industriale, legato ad una prospettiva di economia in linea con le grandi trasformazioni in atto, ma partendo dalle esperienze del passato.

E’ quindi opportuno che tutte le nostre forze si raccolgano intorno ad un progetto che permetta, in tempi brevi, anche se con impegni circoscritti, a rimettere in moto un sistema virtuoso che consideri le somme postate per progetti d’investimento della regione Campania, quale fattore incentivante e moltiplicatore, oltre che come attrattore di risorse private per ulteriori investimenti.

 Le infrastrutture, punto fondamentale per l’attrattività di nuovi insediamenti d’imprese, restano fondamentali, ma i nodi politici molto spesso strumentali continuano a frenare il decollo di strutture quali l’interporto, ultimare la ristrutturazione della tratta ferroviaria dell’alifana o definire un vero piano della mobilità per la provincia e il collegamento con Napoli.

Il rilancio dell’edilizia quale volano di un settore strategico non può che ripartire dal riprendere la discussione sul social hausing per la città di Caserta, ma anche da una discussione più ampia che comprenda la definizione della bonifica delle cave dismesse, il risanamento dei centri storici con i progetti “più Europa”, la riqualificazione della fascia costiera e dei Regi Lagni. Progetti questi ultimi che devono vedere al più presto l’apertura dei cantieri.

Il recupero ambientale delle nostre coste e una nuova gestione artistica della Reggia di Caserta e di tutte gli altri beni artistici ed architettonici devono diventare fondamentali per far ripartire un sistema virtuoso che permetta alla nostra provincia di rientrare a pieno titolo nel circuito turistico che non sia quello attuale di poche ore necessarie per la visita del palazzo reale, ma che permetta una permanenza di più giorni sulla nostra provincia.

 I 40 milioni di Euro dei fondi PAC e quelli destinati alle piccole e medie imprese per l’artigianato sono un primo piccolo passo, ma certo la politica Regionale non può limitarsi solo a questi incentivi. Ci aspettiamo di più ed anche in un arco di tempo limitato.

È un impegno che dobbiamo assumere nei confronti di tutti quei lavoratori, di tutte quelle donne, di tutti quei giovani che testardamente non vorrebbero abbandonare questa provincia per cercare lavoro altrove. Per quei giovani che oggi sono qui e credono nel nostro sindacato e vogliono affiancarci per costruire un futuro diverso.

  Tutti, iniziando dalla politica e dalle forze economiche ed imprenditoriali, ma anche noi come Sindacato   dobbiamo incoraggiarli  a restare non solo a parole,  ma con azioni concrete  perché, altrimenti, ci accuseranno  di non aver  saputo evitare che il nostro  Paese  finisse in mano a chi,  per il proprio immediato tornaconto,  ha distrutto le speranze  ed il futuro di un territorio  ricco di storia, di bellezze naturali ed artistiche  e con una tradizione,  ancora  valida,  di lavoratori  capaci, competenti abituati a lavorare  con impegno e dedizione  in tutti i campi  da quelli più umili fino all’Università e la Ricerca

C’è da valorizzare l’immenso patrimonio culturale della nostra Provincia, le varie istituzioni, chi più chi meno, lo trascurano e poco si preoccupano di mettere in sicurezza il nostro territorio, con un sistema di trasporti sempre più inefficienti e una logistica tutta da rivedere.

Ma in una relazione, al termine di un mandato di 4 anni, si ha l’obbligo di, come si suol dire, fare un bilancio del proprio lavoro.

È il bilancio di un lavoro svolto alla luce di una confederalità vista come momento di definizione di nuova programmazione politica e organizzativa territoriale e contemporaneamente di sintesi di esigenze variegate delle singole categorie.

Abbiamo avviato, anche con qualche difficoltà iniziale (perché negarlo?), un rapporto di piena sintonia e collaborazione con tutte le categorie che ci ha permesso di essere presenti sui contesti istituzionali e lavorativi in modo forte e deciso nonostante tutte le difficoltà derivanti dalle incertezze e debolezze, anche nostre, in questa fase di crisi.

Abbiamo preparato come segreteria un opuscolo sulle politiche sociali e d’inclusione oltre ad un DVD sulle iniziative effettuate durante questi ultimi quattro anni che troverete nella vostra cartella che considero parte integrante di questa relazione.

 Il dossier sulle politiche sociali, il video vogliono rappresentare quel lavoro certosino e continuo che, in collaborazione con tutte le categorie, ogni giorno in questi quattro anni è stato portato avanti dalla nostra organizzazione.

Le numerose vertenze che ci hanno visto fianco a fianco con i tanti lavoratori che vedevano messo in discussione il posto di lavoro lo vogliamo ricordare, ma anche rappresentare non con le parole ma con i loro volti.

Così come abbiamo evitato d’inserire tutti gli accordi che abbiamo sottoscritto con le istituzioni locali e le associazioni presenti sul territorio (ma che potrete trovare sul nostro sito). La testimonianza di quel lavoro coeso e collaborativo che ha visto la nostra organizzazione a fianco delle associazioni presenti sul territorio: Agrorinasce, Libera, Legambiente, Nero e non Solo, le cooperative sociali NCO, le Terre di Don Diana, le Mozzarelle di don Diana, la cooperativa EVA, le Piazze del Sapere e tutte le altre che non menziono, ma che avrete modo di vedere nelle belle immagini delle tante iniziative intraprese. Le abbiamo voluto ricordare perché ritengo importante il lavoro fatto sui temi del sociale, della cultura e della legalità quale strumenti per esercitare il diritto di cittadinanza su un territorio dove ogni giorno questo diritto viene messo in discussione anche per la presenza pervasiva da parte di organizzazioni criminali e del malaffare.  Ricordo gli incontri con le scuole, con i giovani, i campi estivi, le numerose iniziative sui beni e le aziende confiscate, sulle bonifiche, sull’acqua bene comune, sulla violenza sulle donne e tante altre…..

Ci tengo però a sottolineare il grande lavoro e le tante iniziative in favore dei lavoratori extracomunitari, per cercare di rendere meno triste e più accettabile la loro vita. L’apertura e la ristrutturazione di altre sedi della CdL in provincia, compresa la CdLT che ci ha consentito di implementare l’assistenza e la tutela individuale con la rete dei servizi. Ci sono difficoltà economiche che ci stanno costringendo a sacrifici inevitabili ma non ci abbandona la speranza che in un prossimo futuro tutto potrà essere rivisto in meglio.

Infine (ma non certamente meno importante) la necessità della nostra unità: è innegabile che in questi ultimi mesi ci sia stato qualche confronto piuttosto acceso su argomenti che riguardano da vicino la vita della nostra organizzazione. È noto a tutti voi la differenza d’interpretazione tra il compagno Landini, segretario della Fiom e la Confederazione sulla rappresentanza.

 A mio avviso la prima cosa da sottolineare è che la diversità di vedute su tale argomento non può essere confusa o peggio interpretata come uno scontro tra il compagno Landini e la Segretaria generale della CGIL Camusso: si tratta di posizioni diverse su come affrontare le sfide future che attendono il nostro sindacato, in una dialettica tra posizioni e visioni differenti. Ciò risulta evidente solo se si considera che il segretario della FIOM e la Segretaria generale hanno sottoscritto lo stesso documento Congressuale “Il lavoro decide il futuro”.

Credo sia necessario analizzare senza pregiudizi il documento (mi riferisco non solo al Regolamento, ma all’Accordo complessivo) sempre per trovare la giusta sintesi con tutte le diverse posizioni, ma, soprattutto, nel rispetto della maggioranza. Tutti voi conoscete i termini   dell’ ”Accordo”.

 Grazie a quell’Accordo viene rimesso nelle mani dei lavoratori il voto sulla validazione dei contratti e non un’intesa firmata dalla minoranza dei sindacati; ai lavoratori è demandata la scelta dei rappresentanti. Quell’ “Accordo”, è bene ricordarlo, significa la sconfitta dei contratti separati, l’abolizione della quota di un terzo per le sigle firmatarie del contratto e le regole certe per la certificazione della rappresentanza stessa. E’ vero siamo ancora lontani dalla legge sulla rappresentanza per la quale ci battiamo da 40 anni, però è innegabile che questo accordo ne renda l’approvazione più vicina. Lo strumento di condivisione sono certa si riuscirà a trovare e il nostro Congresso ribadirà che la nostra unità, pur nella dialettica delle posizioni, rimane il valore fondante della nostra CGIL.

Camilla Bernabei

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